lunedì 8 maggio 2017

Giovanni Boine (1887-1917): I cespugli è bizzarro. A cura di Claudio Di Scalzo per il centenario della morte





Giovanni Boine

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

 – Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.


– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.





 "È deciso si muore,
borbotta Boine,
col vestito migliore" 
CDS
China e acrilico su carta
maggio 2017





Claudio Di Scalzo

CESPUGLI IN BOCCA PAROLE CIECHE IN GOLA

L’otto maggio 1917 traballa in mezzo alla stanza nella notte. Non sta in piedi. S’accuccia s’inginocchia si rattrappisce sul pavimento. I dolori lo devastano come ramo secco-sfrondato. A fatica raggiunge la finestra. Si alza. Pertica piegata sul vetro. Guarda fuori. I cespugli del giardino i fiori di cui non ricorda il nome. Le parole gli sfuggono come semola in imbuto-gorgo.
Decide di uscire fuori. Sembra una bestia ferita che si trascina. Ripensa un luogo di Porto Maurizio dove c’è una pergola di glicine. Ne sente il profumo stordente eppure dal mare gli viene odore di lezzo  e di carcasse di pesce marcio. Si china sul terriccio. Lo prende tra le mani. Lo sbriciola. Potessi passarlo sui manoscritti-linfa a vuoto che ho in casa! Fino  a cancellare ogni grafia! Un tempo scrissi  sui cespugli sulla bizzarria che portano a chi li guarda. Boine non ricorda a chi spedì il manoscritto.
Se sulle carte passassi strizzandoli nei colori negli umori nei gambi nei petali questi fiori senza nome per me allora terriccio vivo e fiori morti sarebbero il perfetto esito di una oltreumana cecita, la mia cecità di adesso, di ieri, la mia perdita di tutto. Poi ha uno svenimento. Si riprende. Sulle labbra umide-incise di saliva di sangue, precipitate sopra un mucchio di terriccio smosso, s’incollano brandelli di radici strappate.

Buttandosi sul letto vestito e impolverato Boine s’addormenterà-scosse col volto cespuglioso. Imbrattato.




sabato 6 maggio 2017

Giovanni Boine (1887-1917): "A tagliare gli ormeggi" - (1917). A cura di Claudio Di Scalzo per il centenario

Giovanni Boine dopo aver scritto "A tagliare gli ormeggi"
e averne evocato l'eco negli ultimi giorni di vita.






Giovanni Boine
A TAGLIARE GLI ORMEGGI
(1917)

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.
Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –










Claudio Di Scalzo
A TAGLIARE GLI ORMEGGI È UNA PREGHIERA

Giovanni Boine scrisse “A tagliare gli ormeggi" nell’ultimo tempo della sua malattia mortale. A me non interessano le preziose note filologiche su come e quando Mario Novaro li abbia pubblicati. Mi preme invece ricordare, in prossimità del centenario il 16 maggio, quando Boine muore a trenta anni, che questa è una preghiera. E che attiene al Sacro.

Ho accostato, di recente, a Lucca, a fine aprile, a questa preghiera di Boine, una di Gemma Galgani agonizzante e un lacerto di Kierkegaard sull’esistenza autentica nell’abbassamento, nell’umiliazione del corpo ammalato, che porta alle vera conoscenza, ricavandone sintonie impressionanti: “Perché il giudizio della conoscenza abbia il suo valore ci si deve buttare allo sbaraglio nella vita, fuori, sul mare, e far echeggiare il proprio grido, per vedere se Dio non lo voglia ascoltare; non stare sulla riva del mare e guardare gli altri lottare  combattere – soltanto allora la conoscenza diventa giudizialmente nota e in verità sono due cose completamente distinte lo stare su un piede solo e dimostrare l’esistenza di Dio e il ringraziarlo in ginocchio”.

Giovanni Boine è il singolo nella disperazione della malattia mortale: sta sul piede solo, ultimo, della sua residua capacità e voglia di scrivere come poeta, un testo, da rivolgere a Dio: richiesta d'aiuto consolazione cura; e poi in ginocchio, senza più nessun orpello da letterato s'affida al Cristo all’umiliato dalla Croce dal Male. Sta nella sua stessa solitudine. Ricordiamolo. Del Crocifisso. Nessuno e nessuna lo cura da quando ha tagliato gli ormeggi. È solo. Accanto ai fogli con l'ancora sollevata per il mare aperto della scelta finale... c’è anche un telegramma.  

So che vivi un momento durissimo, nel tuo presente, ma di ciò non mi voglio più occupare per tutti i motivi che ti scrissi e che furono causa della nostra separazione. Sono sollevata a sapere che la signora Sandra viene una volta a settimana a trovarti per sapere come stai, a confortarti conversando un poco con te”. 
Boine lo guarda, quel telegramma così impietoso, e prova una pena talmente infinita che lo fa quasi soffocare. Poi eleva un Padre Nostro. Anche per chi vergò tali parole ultime. Verso la sua camera di dolore.

Quindi “A Tagliare gli ormeggi”, lo inserisco in "Giovanni Boine muore" per il 6 maggio, come fondamento, testimonianza, frammento, del racconto cristiano sugli ultimi giorni dell'autore di Porto Maurizio. 

"A tagliare gli ormeggi" non è roba per costruirci sopra teorie letterarie. Chi lo fa o lo farà nel centenario somiglia, secondo me, a chi si cala negli ossari per raccattare teschi e scapole a caso tanto per ricostruire uno scheletro su cui studiare a Medicina. Lascino perdere quanto attiene al Boine malato, alla sua ultima produzione scritta che neppure volle sistemare. Si dedichino casomai ai soliti ritornelli sul frammento vociano sulle estetiche che i letterati elevarono nel novecento e che ora sono polvere. Sono sempre esistiti ed esistono anche oggi in rete e su carta stampata chi costruisce statue con la polvere tenendola insieme con la saliva della propria vanità.

Agli angoli della camera e casa dove Boine agonizza non si può pisciare, come i cani, per lasciare  segnale per attirare altri cani dediti all’ermeneutica sui morti più o meno celebri dai quali ricavare vite poeticamente ispirate. E propellente per pubblicazioni.





Tomba di Giovanni Boine. 
Luce che trasmette traverso il cipresso...




Quando anni fa, primavera 2014, andai ad Imperia sulla Tomba di Giovanni Boine, e mi giunse la luce del poeta attraverso il cipresso accosto al marmo dove riposa colui che tagliò gli ormeggi soliti del letterato, mi ripromisi di difendere l'uomo, il fratello, nel Sacro che  muore col suo vestito migliore. La fede nell'umiliato Cristo. E questo faccio nel maggio 2017. E farò piu' in là.






mercoledì 12 aprile 2017

Claudio Di Scalzo: Il disgusto di Boine. Lettera di Boine malato a se stesso sano.

CDS: Il disgusto di Boine - Aprile 2017





Claudio Di Scalzo

IL DISGUSTO DI BOINE



A centenario della morte di Giovanni Boine,  il 16 maggio 2017, forse sarebbe il caso, in un Post-Libro, in qualche post-pagina da aggiungere ad “Agonia”, a “il ceppo inutile del male”, ai giorni in cui fu lasciato solo e morente dagli esimi conoscenti poeti e da chi diceva di amarlo!, che provò,... di evocare, mi dico e scrivo, per i tempi presenti, quando immagino, penso, presumo, molto temo, eccome s elo temo!, alcuni intellettuali e poeti, in cerca di legittimazione curandolo in incontri e interpretazioni in rete,… di materializzare, diciamo proprio così, il suo DISGUSTO, la sua NAUSEA,  il suo RIBREZZO, la sua totale avversione fino a morirne verso i gruppi intellettuali che modellano la poesia come la creta per ricavarci modellini di possibili statue, di là da scolpire, dominanti poi la città della letteratura italiana. 

È lo stesso Giovanni Boine, in una lettera a se stesso, più che lettera un frammento frantumato più d’un nocciolo d’oliva in frantoio che olio più un dà., a ricordare, con nausea, questa prassi da, come li chiama lui, “scultori del fiato d’altri”.






Caro BOINE SANO, ora che stai morendo, non pianteresti un pugno nel grugno a giugno, se tu ci arrivassi, a chi vorrebbe inserirti nel modellino in creta, te, come altri poeti, per futura statua ciclopica che mai, essendo scultori mediocri,  realizzeranno? affinché essa statua domini il panorama letterario italiano e porti nome altisonante più dei poeti scolpiti dello scultore indefesso?

BOINE MALATO si rispose mentalmente, non aveva più la forza di ridacchiare, né di alzare un pugno chiuso verso chicchessia. Una pedata nel fondoschiena, di punta, pensò, do e darei, a questi scultori e ai loro seguaci,  ce ne sono ce ne sono nelle patrie lettere, vil razza dannata e malcreata di lacchè in livrea! 
Lascio ogni mio scritto accidentato, pensò. Non pubblicato. Anche per questo. Per non aver niente  a che fare con questi modellatori del mio fiato. Che va al Nulla o a Dio non so!  

Modellatori, come Alessandro Casati, che se ne sta giulivo in giro col suo cerchio di pensatori  e poeti  e scrittori e artisti, dimenticando questo scemo che gli scrisse lettere e lettere e che la sua opera confidava, come il mio corpo malato e morente, proteggesse.

Se avessi ancora tempo scriverei un’opera sul disgusto, sula nausea sul ribrezzo verso chi amministra o crede di amministrare la poesia. E invece c’è soltanto questa lettera mentale da Poeta Malato a Poeta Sanoche fui.

Ma anche questo è un bel BOTTO! L’ULTIMO. E il PLAUSO lo riservo a me che muoio innocente nella mia crudeltà e, anche se è da ridere a pensarlo, SANO tra tanti corpi corrotti dall’ambizione della carriera letteraria e scultorea. Malati verso gli altri e verso se stessi. Pensando d'esser sanissimi in lor testa ragionante e raziocinante come uno scalpello che picchia nell'acqua che scorre!





domenica 9 aprile 2017

Giovanni Boine (1887-1917): Bisbiglio e Vespero. A cura di Claudio Di Scalzo per il centenario della morte

CDS: "Tormenti di Boine in elastici tormenti"




Giovanni Boine

BISBIGLIO E VESPERO


– E che vuoi dire? È tutto detto ormai. – Andiamo accanto per la sera quieti, zitti, come in una culla di bontà.

– Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

– Perché, se dici, è un po’ un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto ripunge il tormento.

– Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione… Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

– E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride infine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio.

– Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo agli uomini. – Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire!

– E dunque ormai che vuoi tu dire? È detto tutto. – Andiamo quieti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.









(Giovanni Boine in una dislettura domenicale. BISBIGLIO E VESPERO. Dove son figlio e cartiglio e faccio del mio meglio come boiniano vero fuorimano!)



Claudio Di Scalzo
DISLETTURA DOMENICALE
(bisbiglio per bisbiglio)


-Bisbiglio del nomade soggettivo che qui capita. Che flessibile un po’ va a cavallo per evitare ogni stallo e un po’ a piedi anche se tu lector non ci credi. Come transitare nel  vespero della poesia italiana che potrebbe durare dalla morte di Leopardi? E nella quale Boine è il morto giovane dalla tisi frantumato ma accettandola con virilità, che altri bollati petti da sanatorio, non avevano. Transitare o transnaturare la tensione dualistica di Giovanni Boine impegnato  a crepuscolarizzare il mestiere di poeta e ad accidentarsi  di solitudine? Esploriamo cautamente sbalestrati. Quanto ci tocca per risultarne una critica ibrida

-È tutto detto ormai può firmarlo anche il Moretti col suo lapis e stando a Cesena. Che piova o che faccia bel tempo.

-Groppo rima con intoppo ma la parola che non si lascia dire dove finisce? Sotto una suola? In questa estetizzazione del quotidiano passeggiare lungo riva o tra gli ulivi scassinati dai fulmini dal vento; Giovanni Boine opera un uso performativo del lessico lamentoso crepuscolare. L’uomo nel suo essere è silenziato. Può tornare al rimpianto di una culla dove il dondolio o cigolio o la madre parlava per te fantolino Boine. E poi? Oggi per noi parlano le ibridazioni post-umane nelle tastiere dei pc degli iPad e degli iPhone. Il groppo è stroppiato da qualsiasi superficiale che basculla tra Instagram e Whatsapp.

-Darsi come ubriachi. Abbassare il linguaggio al balbettio impastato d’una lingua ridotta a pagliaccesco comportamento. Rende inermi. Soprattutto poi, l’autore, chi scrive, perde la propria allucinazione soggettiva, che ha bisogno di lucidità e acqua di fonte, niente cognac e vino ligure; e se uno traballa nel vuoto parolario poi si pente e si martella il grugno con rimpianti. L’autor à da esse 'osa seria alla buonor! O mamma qui siamo in man ai cialtron. Bisbiglia nel vespero a Porto Maurizio il Boine incazzoso.

-Se le ‘ose son fonde e non le sai a dir a niuna persona fattene na' ragione la gente vive in superficie della materia e dei sentimenti e nessuno se ne accorgerà. Tanto vale dire  scrivere le stronzate. Qui siamo a un millimetro da Flaubert. Si profana ma la letteratura omai sta in tana. Dunque?, ovvia lo 'apirebbe un bambino: si profanano le opere di topetti.

-Il tempo della disperazione è differenziale si ricombina in frammenti ora della disperazione ora del divertimento e insieme disgrega la poesia originaria che un tempo, prima del '900?, era possibile che si diramasse per il verso giusto. Con il relativo gusto!

-Ecco qua! ecco qui! la geeeente. In mezzo alla quale si sta in osmosi per non apparire diversi ma poi la diversità di quelli alla Boine, tutta sta' gente dalle olive alle telline, dalle casette alle barchette che faran mai?, la sofferenza gliè pompata dal non detto. Dal non espresso. 

Tutto è stato detto. Che si scriva col lapis, che lo si scriva morendo in chiesa stesi sulla sulla croce come sul materasso tossendo sangue, che si ghigni in bicicletta fori porta a Torino o in nave verso l'India del bramino, tutto è stato detto anche sul vaporetto. Dice Boine di Porto Maurizio. E questo vespero non è uno sfizio.



Claudio Di Scalzo: Giovanni Boine e l'angoscia nel Getsemani e sulla Croce di Cristo.

CDS: "Giovanni Boine muore e pensa a chi l'ha lasciato solo"




CDS

GIOVANNI BOINE E L’ANGOSCIA NEL GETSEMANI 
E SULLA CROCE DI CRISTO. E SUA.
LA PRESA IN GIRO DI CRISTO E SUA.
E LA QUESTIONE DELLA SCELTA.

Giovanni Boine in aprile, pochi giorni prima della domenica delle Palme, e sarebbe morto un mese dopo, a uno studente che era venuto a trovarlo, mezzo parente, parlò di Cristo sulla Croce e prima nel Getsemani. Sulla sofferenza che aveva provato in quei due momenti. Forse pensava a come Maria Gorlero e Alessandro Casati l’avevano lasciato solo nella sua malattia ultima. Con frasi a volte fredde o aggressive e comunque di circostanza. Mai all’altezza del tragico che viveva. Una donna con cui tanto aveva vissuto, dandole tutto quanto aveva, e un amico al quale aveva confidato ogni suo incedere poetico ed umano, non c’erano. Avevano fatto una scelta. Uno dei due, ora non ricordava più chi, addirittura gli aveva detto che lui col suo atteggiamento strozzava le idee in chi amava. E da ciò non poteva che conseguire che se ne stavano da lui discosti. Il buffo, ma non aveva la forza di riderne, e che lo rimproveravano perché lui imponeva, sull’amore che dicevano di provare per lui, di scegliere. Di giurare in un patto di aiuto verso la sua sofferenza. 

Erano  a modo loro, Maria senza saperlo e Casati ne era imbevuto, di hegelismo, dove non c’è mai la scelta del singolo. Si sta nel flusso della storia della vita. ET-ET, e magari anche nel flusso di qualche poetica crociana o anti-crociana o d’avanguardia o di retroguardia. Invece per lui c’era la responsabilità, sempre, del singolo, per dare senso alla propria vita, AUT-AUT. L’aveva fatto anche il Cristo. Ricavandone sofferenza e la Croce. Ripensò al danese a passeggio alla sua tormentata storia con Regina Olsen. Lui aveva Maria Gorlero e un finto amico come Casati.

Al giovanotto che stava lì anche pensieroso, Boine disse, non si attacca, questa malattia non si attacca, puzza, e per questo apri la finestra, ma tu vivrai sano, e ringrazia tuo padre per le medicine che mi manda. Anche se  non faranno alcun effetto. Ti sei rivolto  a me perché in seminario dove studi ti han parlato di un Cristo che sulla Croce vive il suo più alto dramma di uomo  e di Dio. E me ne hai chiesto conferma. Ti fidi me? che prete non sono? E che sto morendo! E di chi muore, eh giovanotto, un po’ di saggezza ce la dovrebbe avere religiosa  cristiana. Nevvero!? Io ho la mia. E la mia scelta. E ora te la racconto. Poi usala come vuoi!

Per Kierkegaard tutto è preda della possibilità di venir meno per tutte le cose - quindi,  pure dei sentimenti -  sono “impastate di nulla” macchiate da una specie di colpa di origine che li rende instabili. Sì, anche l’amore. Anche quanto ho scritto. Di cui niente m’importa.
M’importa invece che quando son stato a un bivio, ora che ci penso, ho sempre scelto. Ma prima ho provato angoscia per il rischio del fallimento e per il fatto che pur scegliendo tutto possa venir meno. Ma ho scelto. Anche come morire. Come la forma più pura di poesia da non scrivere. Tra il mio essere  e il nulla ho scelto la mia possibilità. Che è morire solo!

Per questo, giovanissimo amico, le parole più angoscianti pronunciate da Cristo non sono quelle che Egli disse dalla Croce, e che sanno a memoria con la loro interpretazione i buoni parroci che ti insegnano  in seminario teologia! “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Matteo XXVII, 46);  bensì le più angosciose parole sono quelle che egli dice a Giuda nell’ultima cena: “Quello che hai da fare fallo presto”. (Giovanni XIII, 26). 

Ti chiedi il perché? Tento di spiegartelo. Perché mentre le parole “Dio mio perché mi hai abbandonato” esprimono l’angoscia per quanto di lì  a poco capiterà al Cristo, e cioè la morte, dopo l’agonia terribile, sono anche il terribile pericolo già individuato, l’approdo individuato; mentre le altre parole “quello che hai da fare fallo subito”, esprimono un’angoscia più alta, perché è nutrita da quanto può capitare, accadere, che il cristo, ma anche noi, non conosciamo. In questa condizione si prova una sofferenza ancora più alta perché sia Cristo che noi siamo davanti al possibile e non al reale. Cristo ha sofferto più al Getsemani che sul Calvario proprio per quanto ti dico.






Io ho sofferto di più quando ho capito la mancanza di bene e di amore di Maria Gorlero e Alessandro Casati verso me!, perché non conoscevo quanto la loro scelta mi avrebbe dato di sofferenza; ed è stata tanta, più alta di quella che ora provo sapendo l’approdo mio, come il Cristo, nella morte certa dopo l’agonia. Nel Getsemani nella mia Croce ho sofferto e soffro anche perché come il Cristo sono stato preso in giro come un pagliaccio!

Ma tutta questa aggiunta personale non c’è bisogno tu la riporti al tuo teologo. E anche tu considerala, se non non sei convinto, come una teologia da povero tisico morente, come una stupidaggine. 






sabato 8 aprile 2017

Claudio Di Scalzo: Giovanni Boine ucciso da chi amava. E il diamante dell'amore tradito.

CDS: "Boine sputa sangue" - Febbraio 2017

olio e china e matita e acrilico e sangue mio che perdo dal naso





Claudio Di Scalzo

GIOVANNI BOINE UCCISO DA CHI LO AMAVA

Su Giovanni Boine negli ultimi mesi della sua vita! le biografie ci van di striscio. Solite noticelle caldo piscio. Nessuno scrive della sua amarezza in nera completezza di scoprir vera la massima di Wilde nella Ballata del Carcere di Reading: … si uccide quanto amiamo, chi ha coraggio usa la spada chi è codardo l’inganno. 

Maria Gorlero si manifesta ingrata e odiosa. Ma avrà usato la spada? o l’inganno di qualche frase cortese che nascondeva la decisione di lasciarlo nel suo sangue sputato sul guanciale? E l’amico Casati perché “punisce” l’amico con la sua incomprensione fredda e distaccata. Lui sarà stato sicuramente codardo! 

Anche se oggi i cultori di epistolari lo ricordano perché Boine gli scrisse lettere. Personalmente una persona simile preferisco non citarla neppure. Oblio. Chi nel momento decisivo nega il proprio aiuto a chi amava, a chi diceva di stimare, custodendone scritti, magari lodandone le virtù estetiche, è persona alla quale nessun tempo che verrà dopo, o il prosaico del reale o quello della letteratura potrà più dare dignità. 

Si  può uccidere quanto si ama, ma ci si uccide, rivelando la propria natura "soccombente". 

Maria Gorlero e Casati in modo diverso amavano Boine per la sua genialità scolpita in un diamante scheggiato da atti anche eccessivi anche indecifrabili alle regole comuni, ma che veniva donato, gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio, che non fosse una mano amica nel momento del pericolo assoluto, dell’agonia, della perdita di sé. Quel diamante spero che Dio l’abbia reso carbone negli occhi dei due quando hanno pensato a Boine dopo la sua morte. E che siano poi morti con le mani nere nel tentativo strofinandolo di farlo tornare lucente. E bellissimo.








E che sia destino di dannazione, di carbone e segni neri sulle mani un tempo baciate, per tutti coloro, uomini e donne, che uccidono chi amano, affinché vivano nel rimpianto per quanto era bellezza da loro ridotta a volgarità,...  è la speranza mia! ora che penso a Giovanni Boine. Solo e senza nessuno che gli stesse accanto, con amore e bene, mentre moriva!  

Nel centenario, della morte, senza tanti intellettualismi,  gli sto accanto mentre agonizza. E porto il lutto. E questo è il mio contributo di uomo. Lascio ai finissimi interpreti di “usare” l’opera di Boine come aggrada loro. Io sto accanto alle bende macchiate di sangue, al diamante dell’amore tradito. 

   



NOTICINA SCALZA


Giovanni Boine negli ultimi mesi di vita sperimenta i versi di Wilde scritti nel Carcere di Reading. E questa sia la fondante biografia transmoderna per Giovanni Boine nel centenario della morte.



venerdì 7 aprile 2017

Claudio Di Scalzo: Lo sfratto a Giovanni Boine


CDS
Boine Muore
China nera su carta 20 x 30
Post-Libro su Giovanni Boine




ALBA CON GIOVANNI BOINE. E SARA CARDELLINO

Stamattina all'alba, a Marina di Vecchiano, aspetto il ritorno dei pescatori di orate e branzini, e scherzo col mio amico poeta morto sul mare di Porto Maurizio-Imperia, il 16 maggio 1917; giochiamo a Tressette con umorismo, alla Morte facciamo Bausette! (come si dice a Pisa) e nel centenario alle porte lo festeggiamo così. Con la mia poesia scema che non vale una sema ma è meglio di chi in accademia su Boine ci fa solo scena. Il poeta ride a queste stolte rime e m'abbraccia nelle ore prime per come gli ho disegnato la faccia. Che la malinconia pesca o caccia?!

"Quando t'inventi questi finali in rima o queste facezie sulla caccia o la pesca", mi dice Sara Cardellino al telefono, "porti il gioco anche dove ci fu il lutto il dolore; è la tua capacità poetica più bella, Claudio, e averla ritrovata, mi stringe a te tanto! Tantissimo. Come il flauto traverso con l'oboe" in una sonata mozartiana. (CDS, dal Post-Libro Transmoderno su Giovanni Boine )

(dal Post-Libro Transmoderno su Giovanni Boine)  







Il Muco in casa Boine
Cercava la Via Respiratoria
Bronco la indicava
Oltre la gola
A uno sputo
Di distanza.
Il rosso del sangue
Disse che c’era lo sfratto.





giovedì 6 aprile 2017

Claudio Di Scalzo: Dai Frantumi di Giovanni Boine, il numero 20. Opere scelte


CDS: "Giovanni Boine malato di Tisi" - Aprile 2017

Tecnica mista su cartone 30 x 40


POST-LIBRO GIOVANNI BOINE




Claudio Di Scalzo

(a Sara Cardellino)

DAI FRANTUMI DI GIOVANNI BOINE: IL NUMERO 20

Davanti al camino con Boine nell’Intemporaneo di fiamma e ricordo



Quando la sera rincaso e mi seggo all’acceso camino, fuori la valle è grigiume di nebbia e notturna opacità,. Non esiste il passato. Che mai è il ricordo?


Proviamo verso questo frammento numero venti che potrebbe spaccarci denti i dentini ermeneutici delle nostre solitarie preci. Ahi Eh Ahi. Mi sostengo con il Penderecki di “Passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo secondo S. Luca”.

Fra poco è Pasqua. E son qui la sera anch’io col camino acceso, a Vecchiano,  e fuori la notturna opacità mi tien lontano dalla città. Anche perché mimà sta male. E io ho qualche chiodo  addosso pur’io. Speriamo di risorgere. Se mi gioco un poco  questo foco col ricordo della passione di Cristo di quella di Boine e di tutti quelli come me, pochi, che alla letteratura danno il compito di condurli nello “Intemporaneo”.

Il grigiume di Boine oggi sono le velocità telematiche che sconquassano il flusso del tempo cosicché gingilliamo frammenti di passato nell’eterogeneità anche con le parole del Cristo morto e risorto. Come dargli torto a chi ogni valenza del letterario ha sepolto? Che potrei essere io accanto al camino che mi vide bambino  e che ora da grande verso la vecchiaia accudisco un'anziana donna malata. Fa sempre capolino Moretti coi suoi crepuscolari mortaretti. 

Il passato non esiste più. Dice Boine coi piedi al caldo  e il petto al freddo tisico. Ma se non c’è passato e oggi né presente né futuro, perché il soggetto  sta separato dall’oggetto, anche dalla fiamma come dal grigiume molle, e il tris temporale coincide in uno... che succede nell’intervallo tra la vita frammento e la visualità d’essa. Qui la fiamma per me la fiamma qui la nebbia per me la pioggia fitta qui la notturna opacità qui la notturna chiassosa pisanità. Eccola qua, eccola qui, di mercoledì, la carbonella del Frantumato numero 20 per sta' data misto dannata; il ricordo caro poeta morto a maggio del 1917 oggi la visualità, la continuità visuale, a cui siamo condannati, sarchia contigua allo spazio che frantuma il tempo del singolo e lo riunifica soltanto sullo schermo di un i.Phone.

L’illusione mia soggettiva d’intendere Giovanni Boine è la parcellizzazione paradossale di un tempo che me lo stabilisce l’informatica. Fiamma d’oggi scrittura automatica di un non-mondo da non-ricordare da non-snebbiare.

Pensare che la poesia in questa latitudine possa tornare ad essere gestita dai sensi, dai piedi che si scaldano, dai polmoni che tossiscono in un ricordo materializzato  forma di versi, è, semplicemente, da illusi. O da poeticanti sempre un po' affranti. Almeno Boine era virile in sua morte di petto e di letteratura. E pur'io non m'inginocchio a sta vita di paesana sarchiatura senza tempo.  

Il bricolage dei ricordi al massimo forma le suppellettili per un Teatro della Memoria dove la rappresentazione non ha più l’uomo. Né il poeta morto Boine né il vecchainese che accudisce la madre, né qualsiasi  Altro che fra qualche anno entrerà in questa stanza.

A menoché la drammaturgia di questa non-morte non ritorni come un linguaggio quasi adamitico, che potrebbe essere una frase boiata, una scemenza spettrale che non spaventa più nessuno. Oppure un atto mistico da Oltre-Croce. 

L’originario della ferita che porta Resurrezione. Ma bisogna morire nell’agonia. Boine lo fece, e tu che mi leggi? Te la senti di andare verso l’agonia e l’inutile ceppo del male per ritrovare un camino acceso che ti parli con i ricordi? O ti accontenti come Pendercki e la sua legnosissima e spropositata partitura di tornare alle ambientazioni sonore preformate, con gli echi dell’antica musica liturgica, aroma d’ogni misticismo?

Chi immagina di tornare all’antico canta ma è afono, e se ne sta nell'inerzia catodica scambiata per danza linguistica.

Comprendere questo maggio in cui Boine muore impone accettare che tra linguaggio e realtà, ogni camino accesso ogni ricordo d’esso!, c’è uno scarto irriducibile, incolmabile a un sistema di idee che propone l’origine della creazione poetica. La cappa del camino di Boine fa fumo e il mio non lo fa perché l’ho pensato acceso ma non lo è.


E questo è un tassello della mia pensosità senza età. Dedicata a Giovanni Boine.





Penderecki - Utrenja I: The Entombment of Christ (1970)


  https://www.youtube.com/watch?v=lNlI16lhYIA



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