lunedì 8 maggio 2017

Giovanni Boine (1887-1917): I cespugli è bizzarro. A cura di Claudio Di Scalzo per il centenario della morte





Giovanni Boine

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

 – Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.


– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.





 "È deciso si muore,
borbotta Boine,
col vestito migliore" 
CDS
China e acrilico su carta
maggio 2017





Claudio Di Scalzo

CESPUGLI IN BOCCA PAROLE CIECHE IN GOLA

L’otto maggio 1917 traballa in mezzo alla stanza nella notte. Non sta in piedi. S’accuccia s’inginocchia si rattrappisce sul pavimento. I dolori lo devastano come ramo secco-sfrondato. A fatica raggiunge la finestra. Si alza. Pertica piegata sul vetro. Guarda fuori. I cespugli del giardino i fiori di cui non ricorda il nome. Le parole gli sfuggono come semola in imbuto-gorgo.
Decide di uscire fuori. Sembra una bestia ferita che si trascina. Ripensa un luogo di Porto Maurizio dove c’è una pergola di glicine. Ne sente il profumo stordente eppure dal mare gli viene odore di lezzo  e di carcasse di pesce marcio. Si china sul terriccio. Lo prende tra le mani. Lo sbriciola. Potessi passarlo sui manoscritti-linfa a vuoto che ho in casa! Fino  a cancellare ogni grafia! Un tempo scrissi  sui cespugli sulla bizzarria che portano a chi li guarda. Boine non ricorda a chi spedì il manoscritto.
Se sulle carte passassi strizzandoli nei colori negli umori nei gambi nei petali questi fiori senza nome per me allora terriccio vivo e fiori morti sarebbero il perfetto esito di una oltreumana cecita, la mia cecità di adesso, di ieri, la mia perdita di tutto. Poi ha uno svenimento. Si riprende. Sulle labbra umide-incise di saliva di sangue, precipitate sopra un mucchio di terriccio smosso, s’incollano brandelli di radici strappate.

Buttandosi sul letto vestito e impolverato Boine s’addormenterà-scosse col volto cespuglioso. Imbrattato.




sabato 6 maggio 2017

Giovanni Boine (1887-1917): "A tagliare gli ormeggi" - (1917). A cura di Claudio Di Scalzo per il centenario

Giovanni Boine dopo aver scritto "A tagliare gli ormeggi"
e averne evocato l'eco negli ultimi giorni di vita.






Giovanni Boine
A TAGLIARE GLI ORMEGGI
(1917)

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.
Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –










Claudio Di Scalzo
A TAGLIARE GLI ORMEGGI È UNA PREGHIERA

Giovanni Boine scrisse “A tagliare gli ormeggi" nell’ultimo tempo della sua malattia mortale. A me non interessano le preziose note filologiche su come e quando Mario Novaro li abbia pubblicati. Mi preme invece ricordare, in prossimità del centenario il 16 maggio, quando Boine muore a trenta anni, che questa è una preghiera. E che attiene al Sacro.

Ho accostato, di recente, a Lucca, a fine aprile, a questa preghiera di Boine, una di Gemma Galgani agonizzante e un lacerto di Kierkegaard sull’esistenza autentica nell’abbassamento, nell’umiliazione del corpo ammalato, che porta alle vera conoscenza, ricavandone sintonie impressionanti: “Perché il giudizio della conoscenza abbia il suo valore ci si deve buttare allo sbaraglio nella vita, fuori, sul mare, e far echeggiare il proprio grido, per vedere se Dio non lo voglia ascoltare; non stare sulla riva del mare e guardare gli altri lottare  combattere – soltanto allora la conoscenza diventa giudizialmente nota e in verità sono due cose completamente distinte lo stare su un piede solo e dimostrare l’esistenza di Dio e il ringraziarlo in ginocchio”.

Giovanni Boine è il singolo nella disperazione della malattia mortale: sta sul piede solo, ultimo, della sua residua capacità e voglia di scrivere come poeta, un testo, da rivolgere a Dio: richiesta d'aiuto consolazione cura; e poi in ginocchio, senza più nessun orpello da letterato s'affida al Cristo all’umiliato dalla Croce dal Male. Sta nella sua stessa solitudine. Ricordiamolo. Del Crocifisso. Nessuno e nessuna lo cura da quando ha tagliato gli ormeggi. È solo. Accanto ai fogli con l'ancora sollevata per il mare aperto della scelta finale... c’è anche un telegramma.  

So che vivi un momento durissimo, nel tuo presente, ma di ciò non mi voglio più occupare per tutti i motivi che ti scrissi e che furono causa della nostra separazione. Sono sollevata a sapere che la signora Sandra viene una volta a settimana a trovarti per sapere come stai, a confortarti conversando un poco con te”. 
Boine lo guarda, quel telegramma così impietoso, e prova una pena talmente infinita che lo fa quasi soffocare. Poi eleva un Padre Nostro. Anche per chi vergò tali parole ultime. Verso la sua camera di dolore.

Quindi “A Tagliare gli ormeggi”, lo inserisco in "Giovanni Boine muore" per il 6 maggio, come fondamento, testimonianza, frammento, del racconto cristiano sugli ultimi giorni dell'autore di Porto Maurizio. 

"A tagliare gli ormeggi" non è roba per costruirci sopra teorie letterarie. Chi lo fa o lo farà nel centenario somiglia, secondo me, a chi si cala negli ossari per raccattare teschi e scapole a caso tanto per ricostruire uno scheletro su cui studiare a Medicina. Lascino perdere quanto attiene al Boine malato, alla sua ultima produzione scritta che neppure volle sistemare. Si dedichino casomai ai soliti ritornelli sul frammento vociano sulle estetiche che i letterati elevarono nel novecento e che ora sono polvere. Sono sempre esistiti ed esistono anche oggi in rete e su carta stampata chi costruisce statue con la polvere tenendola insieme con la saliva della propria vanità.

Agli angoli della camera e casa dove Boine agonizza non si può pisciare, come i cani, per lasciare  segnale per attirare altri cani dediti all’ermeneutica sui morti più o meno celebri dai quali ricavare vite poeticamente ispirate. E propellente per pubblicazioni.





Tomba di Giovanni Boine. 
Luce che trasmette traverso il cipresso...




Quando anni fa, primavera 2014, andai ad Imperia sulla Tomba di Giovanni Boine, e mi giunse la luce del poeta attraverso il cipresso accosto al marmo dove riposa colui che tagliò gli ormeggi soliti del letterato, mi ripromisi di difendere l'uomo, il fratello, nel Sacro che  muore col suo vestito migliore. La fede nell'umiliato Cristo. E questo faccio nel maggio 2017. E farò piu' in là.